11 giugno alle ore 21 con una puntualità esemplare è stato dato il via alla 7^ Edizione del “Summer Jazz Festival” a Capurso, nella splendida cornice del chiostro della Basilica di SS. Maria del Pozzo.
Sette edizioni, ma mai un marchio politico, ha evidenziato, non senza polemica, l’organizzatore Michele Laricchia, ad evitare qualsiasi forma di strumentalizzazione da parte di chicchessia. Ma la protagonista indiscussa della serata è stata la musica, quella suonata con il cuore e senza fronzoli, in un doppio concerto il cui unico marchio, questo sì, è stato quello D.O.C.
La prima nota è stata data da Livio Minafra, giovanissimo talento di Ruvo di Puglia, figlio d’arte di papà Pino, trombettista di fama internazionale, giunto al suo secondo cd con la disinvoltura di un genio inconsapevole. Sulla scena c’è spazio solo per lui e il pianoforte a coda. Certamente i concerti per “piano solo” non sono la via più semplice per fare subito presa sul pubblico, specialmente se ci si presenta come jazzisti.
Dopo l’esperienza con la Municipale Balcanica, un gruppo tutto pugliese di cui era il leader, Livio ha scelto un percorso personale, obbedendo ad una esigenza personale e non alla tendenza attuale sul modello di Giovanni Allevi. E se qualcuno ha dei dubbi sulle sue possibilità, aldilà del premio riportato nel Top Jazz 2008, è sufficiente ascoltarlo in uno dei numerosi concerti che sta dando in giro per la Puglia. Ma classificare “jazz” la sua musica è riduttivo. La sua preparazione classica da Conservatorio ci sta tutta con numerosi riferimenti a Debussy, Ravel, ma soprattutto a Prokofiev e Stravinskij, cioè a quelle avanguardie della musica classica che nei primi del ‘900 stabilirono i contatti con il jazz, subendo l’influenza del futurismo.
Come definire diversamente il “Choo Choof”, infantile onomatopea per designare il treno? E l’utilizzo spregiudicato di vari giocattoli lanciati a caso sulle corde del pianoforte da uno spettatore appositamente invitato a farlo? Musica contemporanea sul modello di John Cage? Sicuro? “Musica totale” per usare una definizione di Giorgio Gaslini? Certamente. Ma anche musica minimalista a tratti.
E per il momento mettiamo da parte l’eclettismo, per favore! Forse è solo musica e niente altro, dallo struggente canto di dolore di “Polvere”, dedicata alle vittime delle migrazioni clandestine verso le nostre coste, alla dolcezza della “Ninna per Mimma”, dalla vorticosa “Muezzin” e la vertiginosa “Bulgaria” alla indefinibile “Campane”, capolavoro di intelligenza compositiva e reinterpretazione del suono delle campane in divagazione libera. Sano virtuosismo qua e là, con naturalezza e non per stupire, grande passionalità e padronanza assoluta dello strumento: cosa chiedere ancora ad un artista che può solo crescere?
Nella seconda parte della serata il pianoforte è stato affidato alle mani di Huw Warren, musicista anglosassone, e il microfono alle corde vocali di Maria Pia De Vito, navigata cantante jazz napoletana, che vanta numerose collaborazioni artistiche di livello internazionale. I due si sono conosciuti e hanno fatto amicizia grazie al nuovo grande villaggio globale di Internet. Nata la stima reciproca, è cominciato due anni fa il sodalizio artistico.
Nelle raffinate composizioni del pianista trovano spazio i testi di Maria Pia, la quale, nei momenti più delicati e intimi fa valere la sua napoletaneità ora ispirandosi a “Jesce sole” (una canzone del 1200 riscoperta dal M° De Simone e portata al successo dalla Nuova Compagnia Popolare), ora ripescando integralmente una poesia di Totò, “Si fosse n’auciello”. Non sono mancati brani in stile brasiliano, “Miguilì” di Rita Marcotulli, e “Beatriz” di Chico Barque De Hollanda, una ballata delicatissima nella sua vena triste, accorata e profondamente intima, l’unica capace di regalare quel guizzo di brivido nella schiena.
Per il resto Maria Pia ha dato un saggio della sua straordinaria voce e dello splendido utilizzo che ne fa, lanciandosi in lunghi e difficili vocalizzi, salendo e scendendo sulle note con una rapidità impressionante. La “mano” esperta di Warren ha fatto il resto: ci sarebbe stato bene qualche suo assolo, anche per fare tirare il fiato alla cantante, ma il concerto non ne ha risentito.
In chiusura è stato eseguito “Diàlektos”, parola che sta per dialetto, ma anche per dialogo; per i due musicisti è canto articolato e improvvisazione, un’idea che si fa musica liquida e canto evocativo, puro lirismo nell’atmosfera gradevole della sera.
La luna, grande e magnifica, stava ad ascoltare ammirata.
Gianfranco Morisco