Più di 224mila decessi in un anno, circa 600 al giorno, oltre un milione di pazienti ad alto rischio che, in otto casi su dieci, non raggiungono gli obiettivi di sicurezza in base alle linee guida internazionali. Bisogna partire dai numeri per comprendere il peso delle malattie cardiovascolari in Italia e, di conseguenza, l’importanza della prevenzione. Sono 47mila, infatti, i decessi che si potrebbero evitare attraverso un semplice controllo della colesterolemia. E molte altre vite potrebbero essere salvate intervenendo in maniera più efficace su quelle persone (circa 1% della popolazione) interessate dall’ipercolesterolemia genetica che, se non trattate, hanno una prevalenza di morbilità e mortalità precoce (sotto i 50-55 anni) molto alta.
Di questo, e molto altro, si è parlato oggi in occasione dell’incontro organizzato da Motore Sanità in partnership con la Società italiana studi sull’arteriosclerosi (Sisa) che ha visto confrontarsi sul tema i principali attori coinvolti in un percorso che – è emerso – deve portare ad affrontare le malattie cardiovascolari con una visione di sistema. Colmando il gap esistente tra velocità della ricerca, evidenze scientifiche da questa prodotte e applicazione delle stesse nei processi assistenziali. Con un duplice scopo: ridurre morbilità e mortalità, ma anche i costi per le casse del Servizio Sanitario Nazionale. Costi enormi, se si considera che, nel nostro Paese, soltanto il colesterolo comporta una spesa sanitaria diretta e indiretta di 16 miliardi di euro l’anno.
L’importanza dei dati e la necessità di un patto per la riduzione del rischio
Il punto di partenza, per affrontare il problema, non può che essere una fotografia della situazione attuale. E in questo senso risulta fondamentale la raccolta, da parte delle società scientifiche, di dati nella popolazione, come quelli sulle forme familiari ottenuti dalla Società italiana studi sull’arteriosclerosi nell’ambito del progetto nazionale Lipigen. “L’ipercolesterolemia – sottolinea il professor Alberico Catapano, Presidente della SISA e Past President di EAS – rimane un fattore di rischio causale determinante, ma gli interventi per ridurlo non sono ancora ottimali”. In Italia, oggi, “tendiamo a concentrare la nostra attenzione sulla prevenzione secondaria”, facendo leva su “armi formidabili di tipo farmacologico, ma trascuriamo il grande beneficio che potrebbe derivare da una prevenzione primaria, non necessariamente farmacologica, quando la malattia non è ancora sviluppata completamente”. Secondo il Professor Catapano, per abbassare il livello di rischio, occorrerebbe “sfruttare al meglio le grandi possibilità che abbiamo sulla modificazione degli stili di vita e sugli interventi anche terapeutici”. Ma “per fare questo – prosegue il presidente della SISA – occorre una grande sinergia tra le istituzioni e le società scientifiche per informare tutti gli stakeholders, a partire dal cittadino, per passare al paziente e ai provider di healthcare, senza escludere i dietologi, i dietisti, gli infermieri, per finire con la figura apicale del medico”. Catapano auspica dunque “un patto forte che, con le nuove tecnologie disponibili, permetta di avere un quadro chiaro di come spostare il rischio dell’intera popolazione”. I benefici possono essere concreti, e misurabili. “Con una riduzione di 15-20 milligrammi per decilitro di colesterolemia LDL (le lipoproteine aterogene) – conclude Catapano – si arriverebbe a una riduzione del 25% circa di eventi cardiovascolari fatali e non fatali nel medio e lungo termine”.
Dalle Regioni alle istituzioni nazionali: la roadmap per arrivare alla svolta
Giulia Gioda, presidente di Motore Sanità, ha posto l’accento sulla necessità di raggiungere obiettivi concreti attraverso un percorso progettuale che parta dai singoli territori regionali e arrivi alle istituzioni nazionali con proposte concrete. “L’Osservatorio Innovazione di Motore Sanità, in partnership con la Società italiana studi sull’aterosclerosi, e con il coinvolgimento delle principali società scientifiche e degli attori della filiera, crede sia arrivato il momento di colmare il gap esistente tra velocità della ricerca, evidenze scientifiche da essa prodotte e applicazione di queste nei processi assistenziali. Inoltre, pensiamo sia arrivato il momento di sfruttare al meglio le nuove risorse introdotte a sistema in una fase in cui sono in atto grandi trasformazioni organizzative”. Per questo, Motore Sanità ha individuato un percorso progettuale che si concluda con l’individuazione di una strada che porti a risultati concreti. “Si partirà dai singoli territori regionali per raccogliere attuali bisogni, criticità e punti di forza da cui ripartire – spiega Gioda, quindi presenteremo il materiale raccolto e le proposte generate alle istituzioni nazionali, per poter adottare scelte e soprattutto azioni rapide e sostenibili”.
Terapie personalizzate in base alle esigenze di ciascun paziente
Il Professor Pasquale Perrone Filardi, presidente della Società Italiana di Cardiologia (SIC) ha dichiarato: “La malattia cardiovascolare, sia in Italia che globalmente, è la prima causa di disabilità e di mortalità, arrivando a provocare il 34% dei decessi totali”. Percentuale che, per quanto riguarda le donne, “che fanno un po’ meno prevenzione”, sale al 39%. “Il nostro compito – spiega il presidente della SIC – è quello di intervenire non soltanto sui pazienti che hanno già subìto un evento e sono già a rischio altissimo, ma in maniera sempre più anticipata, attraverso la prevenzione”. L’obiettivo, prosegue Perrone Filardi, è quello di “prevenire che la malattia si sviluppi fino a causare un evento cardiovascolare acuto che porterebbe un peggioramento drastico della prognosi, della aspettativa di vita, ma anche della qualità di vita”. Per fare questo, “dobbiamo trattare la malattia nelle fasi più precoci, possibilmente quando non si è ancora manifestata”. La scienza ha stabilito in maniera definitiva che il colesterolo è il principale fattore di rischio per lo sviluppo delle malattie cardiovascolari. “E le linee guida europee a cui facciamo riferimento ci raccomandano che i livelli di colesterolo devono essere abbassati in tutta la popolazione in maniera proporzionale al rischio cardiovascolare”. La Società Italiana di Cardiologia, insieme con la SIBioC, ha redatto un documento che, spiega il presidente della SIC, “sarà pubblicato a breve e servirà raccomandare che nelle refertazioni con valori analitici del colesterolo non venga indicato un valore di normalità per tutti, ma venga fatto riferimento al proprio profilo di rischio cardiovascolare e al corrispondente valore raccomandato dalle linee guida. Questo consentirà anche ai pazienti di avere più consapevolezza di quanto il loro valore di colesterolo sia distante da quello che dovrebbe essere il livello ottimale rispetto al loro profilo di rischio. In questa maniera contribuiremo alla cultura del colesterolo e alla personalizzazione delle terapie in relazione ai bisogni di ciascuno”. Anche perché oggi, “in Italia, abbiamo un sistema che ci consente come in nessun altro Paese del mondo l’accesso attraverso la sanità pubblica a terapie innovative per il colesterolo. E un colesterolo che non possa essere trattato – conclude Perrone Filardi – non esiste”.
Due studi confermano il miglioramento delle strategie
Il professor Leonardo De Luca, Direttore della struttura complessa di Cardiologia del Policlinico IRCCS San Matteo di Pavia e Vicepresidente dell’ANMCO, ha dichiarato: “Nell’ambito della prevenzione secondaria, come ANMCO, abbiamo recentemente condotto due registri focalizzati sulla gestione dell’infarto miocardico acuto a livello ospedaliero e sulla gestione dei pazienti con malattia aterosclerotica ad alto rischio in regime ospedaliero o ambulatoriale”. Complessivamente, in circa tre mesi, sono stati coinvolti più di 12mila pazienti. “Nell’ambito dell’ipercolesterolemia, – spiega De Luca – abbiamo registrato i valori di colesterolo ed il relativo trattamento farmacologico”. Il primo registro si chiama EyeShot 2, ed è stato condotto lo scorso febbraio in circa 180 terapie intensive cardiologiche italiane, collezionando dati su circa 3mila pazienti con infarto miocardico acuto, valutando la terapia, inclusa quella ipocolesterolemizzante, al momento della dimissione ospedaliera. “Abbiamo registrato un miglioramento delle strategie ipocolesterolemizzanti rispetto ai registri precedenti: il 90% circa dei pazienti è stato dimesso con terapia statinica, perlopiù con statine ad alta intensità, ed al 60-65% dei pazienti veniva prescritta una associazione, altamente raccomandata dalle attuali linee guida europee, con ezetimibe. I farmaci di seconda linea, i cosiddetti farmaci biologici inibitori del PCSK9, sia anticorpi monoclonali che SiRNA, erano impiegati in circa il 5,5% dei pazienti al momento della dimissione ospedaliera”. E questo, sottolinea De Luca, “fa pensare che il cosiddetto super fast-track, ossia l’impiego precoce della triplice terapia (statine ad alta intensità, ezetimibe, PCSK9 inibitori) possa essere nei prossimi anni implementato in termini numerici, con margini di miglioramento soprattutto per i pazienti ad altissimo rischio cardiovascolare con livelli di colesterolo LDL molto elevati”. Anche nell’altro registro – il Bring-up Prevenzione che ha valutato i pazienti con storia di aterosclerosi coronarica o malattia arteriosa periferica o cerebrovascolare – si sono ottenuti risultati analoghi. La ricerca è stata condotta, in tre mesi, su circa 4.500 pazienti arruolati in circa 200 cardiologie italiane in regime ospedaliero o ambulatoriale. “E i dati – sottolinea il Vicepresidente ANMCO – sono assolutamente consistenti anche in questi pazienti con patologia coronarica cronica: nel 65% dei casi si è prescritta un’associazione di statine ad alta intensità ed ezetimibe, con i farmaci di seconda linea impiegati in circa il 6% della popolazione, con livelli di colesterolo LDL medio attorno ai 110 milligrammi per decilitro”.