La Galleria Orizzonti Arte Contemporanea di Ostuni prosegue la proposta espositiva all’interno della project room con l’inaugurazione, sabato 15 giugno 2024 alle ore 19.00, della personale dell’artista romana Valeria Patrizi, dal titolo Cantica, a cura di Caterina Acampora. “Ponimi come un sigillo sul tuo cuore come un sigillo sul tuo braccio.” Cantico dei Cantici (Ct 2,8-16; 8,6-7) Cantico dei cantici, quando mi è stato raccontato il riferimento letterario dietro cui si stava costruendo la mostra che state per vivere, la mia mente è andata inevitabilmente al ben più noto “cantico delle creature” di San Francesco; confesso che avevo trovato in maniera istintuale una perfetta corrispondenza tra la cantica di Francesco e l’opera di Valeria Patrizi, ho pensato subito al suo saio/tela dove la natura si dipana eterea e si innalza verso qualcosa di più alto. Sono stata bruscamente svegliata da questa costruzione, era un testo molto più antico quello che mi si stava chiedendo di approfondire. Un testo sottile, intenso che poi ho scoperto appartenere all’antico testamento. Ed ora devo ringraziare questo equivoco, questa perdita di coordinate, se sono entrata in contatto con uno dei testi più belli della letteratura sacra. E forse è proprio quello che deve fare l’arte: farti spogliare dalle certezze che il mondo del prima ti ha cucito addosso per rigettarti nel dopo in una condizione inimmaginabile al momento del tuo arrivo. Quello che succede in mezzo è l’esperienza universale e Valeria Patrizi lo sa bene, è evidente dal modo discreto in cui ti catapulta in questo triangolo: tu, spogliato dalla tua verità, la sua opera e lei, silenziosa, impalpabile e al tempo stesso presente. Tra di voi tutto il tempo e lo spazio del mondo senza cornici a delimitare confini. E poi ci sono loro, naturalmente, i suoi personaggi. Carne e sangue, c’è un prima e c’è un dopo, questo è chiaro, ma noi li osserviamo in un momento di raccoglimento, di riflessione, di sospensione drammaturgica. L’artista non ci racconta chi sono e come sono finiti, a volte insieme, a volte soli, su quella tela, né che relazione ci sia tra di loro, tra l’animale e la donna, eppure non potrebbero essere che lì, con noi. Non c’è niente di voyeuristico nell’opera di Valeria Patrizi; riesce a spogliare il soggetto che rappresenta mettendolo in una comunicazione profonda con lo spettatore che sente quasi la necessità di voltarsi indietro a controllare di non essere visto da nessuno, a sperare che quanto sta accadendo stia accadendo con lui e per lui; la materia, la carnalità, l’animale che diventa spirito guida di un umano assorto, finalmente presente, lontano da un quotidiano che lo vuole distante da un contatto profondo con la natura, con sé stesso. E suona quasi ironico pensare quanto ci fa apparire semplice questa ricerca, bastava scomporre la parola stessa: anima-le che, seppur per definizione “privo di coscienza”, è lui stesso che riesce a spostare il piano della realtà della tela, è il suo istinto a raccontarci l’umano. Lasciarsi andare a questa consapevolezza ci porta a vivere l’opera di Valeria Patrizi come l’attraversamento di un bosco d’estate, le macchie delle sue tele diventano il modo per vedere il cielo attraverso gli alberi, mentre la vita si insinua ad ogni livello. I colori che sceglie seguono questo lento incedere; sono toni pacati, gentili, leggeri, pieni di cura, la stessa cura con la quale l’artista costruisce le sue tele e le srotola davanti ai miei occhi nel suo studio del Pigneto, a Roma, dove la si può incontrare con le sue opere arrotolate sotto il braccio. Valeria Patrizi è un’artista sapiente, i suoi soggetti si portano dietro storie silenziose, che lei con amore raccoglie in mezzo agli altri, perché non ne può fare a meno. Il suo sguardo, come quello delle donne che dipinge, è teso verso l’esterno ad accogliere l’altro con gentilezza. Nel suo piccolo studio, mi parla dei progetti per il futuro, mi mostra ritagli, osservo quanto i suoi soggetti siano cambiati negli anni e mi riconosco in una donna riccia dalle grandi labbra rosse. Mi dice che non è la prima volta che le capita e capisco che ci si riconosce in queste opere perché parlano senza sovrastrutture ad un io profondo, lo si fa, si costruisce da solo, perché l’artista crea lo spazio dell’incontro. Questo spazio diventa strumento di esplorazione dell’animo umano e della sua connessione con il mondo naturale; l’atmosfera poetica e spirituale che avvolge le opere esposte è speculare al testo biblico di Salomone, l’invito è chiaro: contemplare la bellezza del creato e la sacralità dell’amore. Il dramma che si dipana nell’opera biblica non è altro che un canto, un inno all’amore, la narrazione che procede in un dialogo tra due amanti, intervallati da lodi della bellezza e dell’amore. Un sogno erotico, più che un racconto; non è la storia degli adultèri di David e di Betsabea, degli incesti di Amon e di Tamar; non vuole né avvertire né eccitare, vuole soltanto rivelare qualcosa attraverso il sogno. Il respiro degli amanti del Cantico risuona nel ritmo delle opere dell’artista che di nuovo lascia parlare i suoi personaggi, in un commiato che sembra urlare con leggerezza: per amare bisogna prima sparire. |